"So che c'è un uomo", di Gianclaudio Cappai
"So che c'è un uomo" di Gianclaudio Cappai è un cortometraggio difficile da digerire. Non per l'inefficienza delle scelte tecniche del regista, né per l'inefficacia delle interpretazioni degli interpreti, tutt'altro. Tutto, al suo interno, è esageratamente vero, reale, e con la realta' personale del regista- autore sembra esser intimamente legato. Proprio questa sua aura di iper-realismo rende profonda- mente pesante, fastidioso, il tema trattato: la follia di un giovane che trascina l'intera famiglia in una vita ai limiti della dignita' umana. Ma cosa succede quando il sacrificio si trasforma in immolazione, quando l'amore pretende una presa di coscienza e non più la placida accettazione? Il caldo che soffoca le menti dei protagonisti echeggia nelle periferie di una Roma deserta, e le mosche continuano a ronzare, fastidiose, come pensieri neri.
Luca Ruocco
per TAXIDRIVERS
SO CHE C'È UN UOMO
Regia Gianclaudio Cappai - Paese Italia, 2009 Durata 30'
Pochi elementi per un quadro inafferrabile che mette a disagio: uno squallido casale di campagna, il caldo oppressivo di una stagione secca e assolata, una famiglia squilibrata che puzza di marcio e sembra sull'orlo della catastrofe, mosche che si poggiano sui volti dei protagonisti e sui corpi dei galli da combattimento morti. Tutto corre più veloce della razionalita' e, allo stesso tempo, resta fermo in attesa di una scintilla che faccia divampare le fiamme. So che c'è un uomo non è una storia ma una suggestione, dove ogni elemento imperscrutabile contribuisce a creare un senso di continua estraneita' eppure di profondo coinvolgimento. Anche se un po' troppo insistito in alcuni suoi elementi, la morbosita' e il perturbante s'infilano sotto la pelle di chi osserva che non ha altra scelta se non continuare a guardare.
Daniele Silipo
per BIZZARRO CINEMA
SO CHE C'È UN UOMO - Vite di confine
Un ambiente malsano, uno sperduto casale di campagna, un nucleo familiare amorfo. Il primo quadro associabile al mediometraggio So che c'è un uomo, opera del regista Gianclaudio Cappai già avvistato alla 66ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia nella sezione Corto Cortissimo.
Cappai utilizza la macchina da presa per raccontare le vicende di una famiglia relegata ai margini della vita cittadina e sociale. Difficile raccontare la sinossi del film, la storia non si concentra un singolo personaggio, ma cerca di focalizzare la propria attenzione sul malessere di un'intera famiglia. I ruoli tra gli attanti non sono definiti con la chiarezza "assertiva" delle narrazioni classiche, i rapporti sembrano promiscui, le vicende offuscate da una patina di insofferenza e rassegnazione. Elementi che si sovrappongono in una narrazione frammentata, il senso narrativo, dei trenta minuti di montato definitivo, si delinea solo nel finale.
Lo spettatore è un occhio indiscreto, e per tutta la durata del film,chi guarda sperimenta un senso disagio e di presenza invasiva e persino "irriguardosa" rispetto ai personaggi. Il minimalismo con cui il regista costruisce le scene diviene pertanto allusivo e carico di significato. La famiglia è circondata da una varietà di bestie. I combattimenti tra galli, il continuo ronzio di mosche, che sostituisce in pratica la colonna sonora, i latrati dei cani, rendono perfettamente la prossimità tra l'uomo e l'animale. In particolare, i galli tenuti in gabbia e aizzati contro i loro simili si accostano facilmente alla condizione di cattività in cui i protagonisti sembrano vivere.
In questo film la famiglia non è rappresentata come un rifugio protettivo, una innaturale forza centripeta sembra allontanare i membri del nucleo familiare dal centro dello stesso. Nel finale, anche la definizione di famiglia viene meno, si potrebbe parlare piuttosto di branco, il legame di sangue non implica il legame affettivo. Il dialogo è assente, il confronto avviene per avvicinamenti o scontri fisici, la parola è sostituita dai graffi sulla pelle. Si lotta strenuamente per la sopravvivenza, al punto che, in estrema sintesi, ma in maniera decisamente efficace, So che c'è un uomo potrebbe essere il manifesto della massima filosofica homo homini lupus. Lo spettatore è attratto da questo labirinto senza uscita, sopportando il senso di claustrofobia pur di capire dove arrivi lo sviluppo narrativo. Lo stesso regista, nelle note, afferma: "Nell'animo di questi personaggi c'è un universo sull'orlo del collasso, che a volte può essere silenzio e sopportazione, oppure grido e rivolta. Finanche morte. Il mio sguardo impietoso su di loro vuole sì cogliere la fragilità di certi rapporti, ma soprattutto le incongruenze e le ambiguità dei nessi che li tengono uniti. Il resto spero lo facciano le immagini".
So che c'è un uomo è dunque il racconto crudo di una situazione estrema, la quale, visti gli ultimi efferati episodi di cronaca, potrebbe anche non essere tanto lontana da una potenziale realtà. Un saggio antropologico in cui il pubblico ha la funzione dell'osservatore partecipante; tutt''altro che super partes il suo ruolo, quindi, egli è chiamato a partecipare attivamente alla definizione del senso dell'opera.. Il finale chiude il cerchio, lascia increduli, e allo stesso tempo permette di rileggere la pellicola conferendo alle scene un valore e un significato differente rispetto alla percezione iniziale. Quello di Gianclaudio Cappai è un film che si discosta dalle ambientazioni che spesso popolano il cinema italiano, nessuna terrazza nel cuore di Trastevere, nessun professionista, nessuna crisi esistenziale. Tutto è molto pragmatico, reale, tangibile, c'è poco spazio per il pensiero, l'istinto governa ogni azione. Gianclaudio Cappai definisce quest'opera una catarsi di un suo residuo emotivo, sicuramente colpisce la capacità di renderne partecipe lo spettatore.
Chiara Pascali
per CINEMAVVENIRE
"So che c'è un uomo" di Gianclaudio Cappai
Come animali in gabbia
In "So che c'è un uomo" di Gianclaudio Cappai, mediometraggio presentato in concorso alla 66a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia (Corto Cortissimo) e vincitore dell'Ovidio d'Argento per la miglior regia all'ultima edizione del Sulmona Cinema Film Festival, scorre come sangue nelle vene un minimalismo che, nel senso più nobile del termine, a nostro avviso non ha paragoni nella produzione medio-corta nostrana dell'ultimo decennio. Un minimalismo che contamina tutto e tutti, storia e personaggi compresi, trascinandoli in un limbo spazio-temporale dove ogni gesto, ogni parola, si fa carico di un peso ineluttabile, quello di un destino che è sempre lì a un passo dal pronunciarsi. Cappai, tanto nella narrazione quanto nella messa in scena, lavora per sottrazione, scarnifica fino ad arrivare all'essenziale e alla vera essenza delle cose. Così i sentimenti, seppur apparentemente congelati e latenti sotto una crosta di freddo distacco, finiscono con il deflagrare nel più tremendo degli epiloghi, bruciando nel fuoco di una macchina incendiata. Le atmosfere rarefatte e la tensione che vi sirespira al loro interno, che ricorda Io non ho paura di Gabriele Salvatores, attanaglia e disturba lo spettatore, rendendolo partecipe di un racconto fatto di lunghi silenzi, sguardi carichi di tutto e di niente, di abbracci rubati, morbosi e ossessivi, di violenticonfronti fisici e verbali. È giusto parlare di incomunicabilita' tra persone che si amano e si odiano allo stesso tempo, che condividono il tetto e spesso lo stesso letto, perché parenti. Nel gioco delle citazioni, dal quale è difficile sottrarsi verrebbe da scomodare persino il cinema di Michelangelo Antonioni, che dell'incomunicabilita' e del non detto si è fatto portabandiera, ma quando si tratta di dinamiche familiari corrotte o instabili non ci si può esimere dal tirare in ballo la filmografia di Marco Bellocchio (uno su tutti I pugni in tasca).
Il regista stesso a proposito del suo film parla di "Una famiglia vista come un nucleo attorcigliatosi all'interno, i cui elementi sono disposti e seguiti nello spazio come un entomologo che osserva i propri insetti muoversi dentro una scatola". Cappai si limita a osservare e a catturare dall'esterno con uno sguardo quasi documentaristico, con una macchina da presa onnipresente che guarda senza giudicare, lasciando spazio anche alla potenza del fuori campo e del sound effect. Padre, madre e prole al seguito, diventano cavie da studiare, perché simbolo e sintesi malata del tempo che stiamo vivendo. Sono animali che scalciano, chiusi in una gabbia fatta di sbarre invisibili che non possono e non vogliono oltrepassare. La lotta dei galli con il quale trascorrono il tempo diventa così metafora della loro stessa esistenza, ossia quella di reclusi volontari (la roulotte dove si rifugia la nipote) che di tanto in tanto si concedono un'ora d'aria, ma che in realta' hanno un bisogno epidermico di confrontarsi e "scannarsi" con l'altro. È ancora Cappai che ce lo conferma dicendo che:
"Nell'animo di questi personaggi c'è un universo sull'orlo del collasso, che a volte può essere silenzio e sopportazione, oppure grido e rivolta. Finanche morte".
Francesco Del Grosso
per CINECLANDESTINO
RECENSIONE "SO CHE C'E' UN UOMO"
Si parla spesso della crisi del cinema italiano, che alcuni attribuiscono alla incapacita' degli autori di proporre storie stimolanti che possano attirare l'interesse del pubblico. D'accordo sul fatto che al cinema si va di meno e anche sulla circostanza che non tutto ciò che si produce nel nostro Paese in campo cinematografico merita di essere visto. I problemi legati allo stato di imbarazzo del nostro cinema,
però, rivestendo caratteri di notevole complessita', non possono essere trattati, se non per sommi
capi, nell'ambito delle poche righe che seguono. Di tali problemi possiamo solo elencare schematicamente
i molteplici fattori che sembrano esserne la causa principale: la crisi economica generale in cui versa il Paese, innanzitutto, che si riflette negativamente su qualsiasi genere di consumo, poi la concorrenza del mezzo televisivo, diventata ancora più agguerrita da quando è possibile abbonarsi, dietro pagamento di un canone di importo tutto sommato assai trascurabile, a canali tematici che consentono una variegata e continua visione di film di tutti i generi e quella delle attivita' di noleggio di
supporti registrati di vario tipo, infine la possibilita' offerta dalla rete Internet di 'scaricare' illegalmente un numero elevatissimo di titoli. A tutto ciò si aggiunge il fatto che il cinema, non vorrei sembrare banale ma credo giovi ricordarlo, è uno specchio, e come tale tende a riflettere, nel bene e nel male, le condizioni di un Paese che oggi non è più quello che all'indomani degli atroci eventi bellici trovava infiniti motivi di solidarieta' e di identificazione con i protagonisti delle vicende che si rappresentavano sul grande schermo e di comunanza emozionale reciproca; non è più neanche quello ottimisticamente,
entusiasticamente direi, proiettato verso il futuro durante gli anni del boom economico. Il periodo d'oro del cinema italiano coincide, grossomodo, con i decenni Sessanta e Settanta, ma gia' le vicissitudini quotidiane dell'uomo e della donna del popolo nel decennio dei Cinquanta offrivano al cineasta una miriade di intrecci da rappresentare e da raccontare al cinematografo. Osserva Gian Piero Brunetta: 'La storia del cinema dal 1945 insegue il sogno di ricomposizione di un corpo unitario, continuando a registrarne le difformita' dei singoli elementi, l'impossibilita' di riordinare il caos in un cosmo coerente e regolato dalle stesse forze. Molti autori vedono comporsi sotto i loro occhi tanti piccoli mondi e tuttavia il caleidoscopio sociale e della realta', pur presentandosi variegato e mutevole, non restituisce la totalita' del paesaggio politico ed economico e la molteplicita' delle forze lavorative. […] Negli anni della ricostruzione si raccontano dunque non tutte le storie possibili, ma molte storie. Si mostra la fame, la disoccupazione e l'impossibilita' di trovare rapide sistemazioni, la borsa nera, la speculazione edilizia, […] : c'è chi va alla scoperta delle sacche del sottosviluppo, dell'arretratezza, dell'analfabetismo diffuso […]'. Al di la' delle criticita' di ordine sociale ed economico che, acutizzate forse, continuano a permanere anche oggi, ci sembra di poter dire che quelli evocati erano decenni di
maggiore ottimismo, di instancabile fervore culturale e di speranza che non muore, di grandi ideali, di più solidale 'vicinanza' tra le persone. Nelle nostre citta', oggi, tutto sembra essersi appiattito e l'entusiasmo appare quasi completamente sedato; viviamo giorni bui, sperimentiamo l'inquietudine, la solitudine, un disagio esistenziale di cui forse non conoscevamo precedenti.
Eppure non tutto tace e pure in tempi di grande smarrimento in cui anche il valore della famiglia perde la propria centralita' e di trascuratezza morale come quelli in cui tentiamo di muoverci, c'è qualcuno che prova a rappresentarlo anche al cinema, questo disagio.
Gianclaudio Cappai
è un giovane regista cagliaritano di cui recentemente è uscito il mediometraggio (durata 30') 'So che c'è un uomo' . Il lavoro, molto apprezzato a Venezia 2009, ha conseguito il premio per la miglior regia al Festival di Sulmona e, più recentemente, 'per aver dato vita ad un racconto di grande forza espressiva ed emotiva in cui atmosfere rarefatte ed ambigue si incarnano in modo
efficace nei volti e nella fisicita' degli attori', quello per il miglior film a Bologna (Visioni italiane 2010,
16^ edizione). Quello presente nel film di Cappai è uno scenario minimale: un casolare di campagna
non lontano da una zona di grandi lavori di scavo e da un deposito di rifiuti industriali. Qui si svolge l'esistenza di una famigliab che vive, lo si arguisce facilmente ad osservare attentamente
luoghi, personaggi e l'insieme delle circostanze narrate, nella precarieta', non solo quella
economica e sociale ma anche, e soprattutto si potrebbe dire, quella affettiva. Un disagio e una
incapacita' di comunicazione su cui per giunta pesa notevolmente lo stato di follia di uno dei
componenti di questa famiglia, un malessere individuale talmente destabilizzante e condizionante per tutto l'ambiente domestico da condurre al tragico epilogo che si vede nel film: il figlio sofferente
viene ucciso dal padre che da' alle fiamme l'auto all'interno della quale il ragazzo si è assopito. Non c'è redenzione né assoluzione per questi personaggi; non v'è neppure cruda condanna, però, dal
momento che ciascuno di essi (padre, madre, fratelli) appare anche vittima di un meccanismo tanto inquietante quanto perverso e inarrestabile e della propria debolezza. Sarebbe riduttivo e fuorviante
classificare all'interno dei generi psycho oppure horror questo piccolo gioiello. Cappai si rivela assai
abile nel creare le tensioni emotive suscitate da certo genere di cinema ma il mediometraggio
poggia anche, e qui sta la maturita' e l'indubbio talento del regista, in una serie di elementi
visivi che vanno interpretati, ci pare incontrovertibilmente, soprattutto alla luce di quel disagio e di quell'abiezione dei sentimenti che pur non venendo nel film mai chiaramente esplicitati, traspaiono in modo costante dai primi piani dei protagonisti e da ciascuno dei fotogrammi che lo compongono.
Giovanni Graziano Manca
per DILLINGER
So che c'è un cinema italiano"
Come amante del cinema italiano, innesco con piacere discorsi sul tema e, quando possibile, mi ci inserisco. La teoria generale (e direi anche la più grossolana) è che il cinema italiano sia in crisi, o meglio che non esiste più un cinema nazionale, ma solo innesti di sovranazionalismo in cui le influenze spazzano via le caratterisiche territoriali e culturali. Altro discorso (meno scontato questo) è che al momento il cinema italiano, influenzato dalla produzione televisiva (diventata anche trampolino per il salto verso il grande schermo, con relative influenze), abbia preso la piega della fiction cinematografica (dunque ricostruzioni, docufiction, e via discorrendo). Qualche giorno fa, guardando il mediometraggio di Gianclaudio Cappai (classe '76, di origini cagliaritane) So che c'è un uomo mi sono fortemente ricreduto sulle varie idee sovraesposte e mi viene da pensare piuttosto che il cinema italiano c'è, ma non si vede. Questo film infatti non solo mantiene tutte le caratteristiche tematiche del cinema italiano (societa', famiglia, etc.), ma lo fa soprattutto con degli strumenti fortemente cinematografici, grazie ad una tecnica talmente affinata che riesce a mettere insieme un episodio e una situazione talmente dense da non lasciare libera neanche per un momento l'attenzione. Senza parlare della costruzione dello spazio della storia, ampiamente supportato dall'uso del sonoro fuoricampo e della colonna rumore, e della creazione di un luogo non luogo, grazie al quale tutto si fa tagliente, reale, impulsivo, e che mi ha regalato dopo molti anni una specie di esperienza alla Aronofsky, senza gli eccessi però del regista statunitense, anzi con una capacita' di rimanere legato al reale ed al "potenzialmente possibile" a cui certi film non riescono proprio a rimanere vicini. Insomma, vale la pena più di tanti altri biglietti pagati.
LA MALA BESTIA wordpress
So che c'è un uomo"
Comincia come una leggenda metropolitana. C'è un uomo, semplicemente. Non ha un nome, né l'hanno la sua famiglia e il suo podere. Tutto è vago, come in una fiaba acida. Eppure, i corpi, i colori, il calore stesso del sole hanno una concretezza inquietante. La telecamera insegue i volti e le carni, li accerchia e li stringe in una morsa. Assedia i personaggi dentro il camper guasto ove cercano rifugio.
Gianclaudio Cappai prende nette distanze dal cinema borghese, ritraendo una campagna che nulla ha di bucolico. Cugini, genitori, fratelli vivono in una promiscuita' screziata di polvere e sudore. I conflitti mormorano, sibilano ed esplodono; le passioni dei personaggi si dilaniano fra loro, come i galli da combattimento che la famiglia alleva. Compagni ideali per il figlio del suddetto uomo. Il giovane sembra aver assorbito, più d'ogni altro, quel sole che brucia le stoppie. Non tenta neppure più di combattere contro la propria violenza, che gli è costata un internamento in una clinica psichiatrica. Naufraga in se stesso, annega, trascinando con sé la propria famiglia. Essa va sgretolandosi, facendo presagire –a chi lo vuol riconoscere- che ognuno è come una tartaruga dal guscio spezzato. Il ronzio delle mosche suggerisce fetori crudeli, mortiferi. In mezzo a tutto questo, l'uomo tace. È il silenzio di patriarchi e profeti messi alla prova dal cielo –o dall'inferno. E l'uomo reagisce come Abramo, salendo sul suo monte di Moria. Questo, forse, voleva dire Cappai: so che c'è un uomo. So cosa un uomo possa fare, per paradossale amore. Balena l'incubo ancestrale del sacrificio, non debellato da alcuna civilta'. Il sacrificio non purifica, conserva intatto l'odore del sangue. Ma è proprio questo odore, vulnerabile e feroce, a dire che c'è un uomo.
Erica Gazzoldi
per IL FILO DI ERICA
"So che c'e' un uomo" di Gianclaudio Cappai
La scena tratta dal film del giovane regista Gianclaudio Cappai in cui si vede un
bambino dai grandi occhi chiari che chiede alla madre indaffarata in cucina, se una
tartaruga con il guscio rotto può continuare a vivere ugualmente, racchiude molte
delle sottili e toccanti sfumature che permeano tutta la pellicola "So che c'è un uomo".
Chiedersi se, portando su se stessa il peso morto di quello che dovrebbe essere il suo
rifugio, la tartaruga può continuare a condurre un'esistenza normale, o se la sua
normalità diventerà quella frattura, se la ferita potrà rimarginarsi, o se la lesione le
sarà fatale, è un interrogarsi sul senso taciuto e inafferrabile della vita stessa, sulle
ragioni di quel lento logorarsi senza cercare una redenzione, senza disperarsi, né
guardare altrove. Il mediometraggio, applauditissimo nel 2009 alla 66° Mostra del
cinema di Venezia, premiato al Festival di Sulmona per la miglior regia e a Bologna
come miglior film (Visioni italiane 2010, XVI edizione), apre allo spettatore una
fessura sulla realtà desolante di una famiglia che si consuma come una candela al
vento, in cui tutto inizia e finisce tra le stanze di un casolare desolato e lo spazio
soffocante di un vecchio camper. La trama del film sembra quasi passare in secondo
piano rispetto alla profondità degli sguardi, dei non detti, dei tratti spigolosi dei corpi
dei protagonisti. Non c'è narrazione, i dialoghi sono brevi e sussurrati; solo gli occhi
dei membri della famiglia non si chiudono mai. Una magistrale interpretazione visiva
fatta di primi piani, giochi di luce e ombre, dissolvenze e sfumature musicali che
esprimono tutta la genialità e la poesia del regista cagliaritano. Poesia che raggiunge il
suo apice in una delle scene finali, in cui si vedono il padre ed il figlio maggiore in
auto; è una sequenza struggente e silenziosa, che per la sua bellezza sembra
rievocare un quadro del Caravaggio. Il sovrapporsi di piani nel buio, il sottile fascio di
luce rossa e il gioco dei capelli sul viso del figlio addormentato richiamano
un'immagine che, nel suo plasmare il dolore ed il sacrificio, ha quasi del sacro.
Un'immagine che toglie il fiato, così come la dedica finale.
di Asmae Dachan
SO CHE C'E' UN UOMO ...
IL MEDIOMETRAGGIO DI GIANCLAUDIO CAPPAI, GIOVANE REGISTA SARDO
So che c'è un uomo. È un'affermazione che chiede i puntini di sospensione, che ci
tiene in bilico tra certezza e incertezza. So che c'è un uomo... e sembriamo estranei
alla domanda che vi si annida implicita, quasi non fossimo coinvolti in quella umanità
a cui ci si richiama, quasi avessimo un'altra identità. "So che c'è un uomo" è il titolo di
un mediometraggio di Gianclaudio Cappai, giovane regista sardo che da quel di
Nuraminis ha trovato domande da filmare nella penisola, come tanti sardi che non
riescono a trovare risposte nell'isola. Con questo film girato in 35mm, già apprezzato
al Festival di Venezia 2009, Cappai è stato premiato per il miglior film alla 16°
edizione di "Visioni Italiane" a Bologna e per la miglior regia alla 27a edizione del
Sulmonacinema 2010 diretto da Roberto Silvestri. Quest'ultimo con le seguenti note di
motivazione: "per aver dato vita ad un racconto di grande forza espressiva ed emotiva
in cui atmosfere rarefatte ed ambigue si incarnano in modo efficace nei volti e nella
fisicità degli attori". Ci sono film che parlano al corpo prima che alla mente e ci
inducono reazioni che sono i segni evidenti di un'identità fluida e complessa, aggettivi
che ci aiutano a scoprirne un'idea più vicina all'essere che sentiamo esserci. Ogni
discorso sull'identità dovrebbe partire dal corpo e dall'aria che vi/si respira. L'identità –
quella collettiva come quella individuale – è progetto, percorso, mai dato originario,
per quanto molti fondamentalismi si alimentino di false quanto vuote ricognizioni
mitologiche piene di bassi richiami all'istinto di sopravvivenza. Sono fondamentalismi
che nascono dal sentimento immediato dell'"homo homini lupus", oggi di particolare
attualità nell'occidente che vorrebbe proclamarsi "civilizzato" dai sistemi normativi e
dall'etica dei diritti e dei doveri. Non è un caso che una riflessione seria nasca e sia
innescato da un testo filmico. Perché il cinema crea le condizioni per una analisi e
sintesi che nasce dal contesto speculativo, dallo schermo che fa specchio riflettente
agli occhi degli spettatori; e nella sua logica duale determina il principio del dialogo,
della discussione. In questa situazione lo spettatore moderno è non solo
immerso/avulso dall'inquadratura cinematografica, dalla visione, ma è anche esposto,
in una triplice triangolazione, alle sollecitazioni del "fuori campo". Da un lato è il fuori
campo del testo filmico: tutto ciò che è invisibile, presupposto, contestuale, sia
relativamente al linguaggio che al contenuto. Dall'altro è il fuori campo del soggetto:
la sua storia, le relazioni, i suoi orizzonti e le sovrastrutture culturali sedimentate,
esplicite ed implicite. Lo spettatore vive non solo nella materialità delle emozioni
coinvolte, nella sensorialità dell'esperienza filmica, ma anche in un rapporto simbolico
e culturale che non ha nulla di spirituale, ma che è essa stessa materia formante
dell'esperienza. Il filosofo Ernesto Grassi lo scrive bene nel suo "Potenza della
fantasia": «L'uomo moderno, desacralizzato e mondano, vive le direttive del simbolo
come smorfia del silenzio, che fa la sua comparsa dietro una vetrina». In un modo non
molto diverso, calato nell'esperienza del fare il film lo dice anche Gianclaudio Cappai
(da un'intervista): « È tutto una grande costruzione meticolosa, dove è specialmente il
lavoro che fai sul fuori campo, sugli "altrove" (i latrati costanti), a far affiorare quel
clima perturbante e strano per cui ti chiedi: sento che sta per succedere qualcosa di
terribile, ma non riesco a capire cosa...». La storia è minimale: siamo in piena
campagna, dentro il non luogo di una qualunque periferia (spaziale e temporale). In
questo spazio vive una famiglia, assediata nella sua precarietà non solo da disagi
economici, ma anche da problematiche turbative affettive e relazionali, sociali e
psicologiche. Su questo silenzio della comunicazione reciproca gravano i rumori
assordanti della campagna, una conflittualità domestica palpabile più che latente
(sublimata nella lotta dei galli), una follia destabilizzante che a partire dalla sofferenza
psichica di uno dei personaggi si spalma su tutti gli altri fino alla scena finale tragica e
imprevedibile (perché non si può vedere prima della sua uscita dalla latenza, come un
fuori campo che preme per imporre un principio catartico). Non è sbagliato dire che
grazie al film l'autore esce fuori di sé, vive un'esperienza ek-statica e la restituisce
facendo parlare l'invisibile: non solo il sonoro di un mondo che si vede nella sua
totalità ma non nei dettagli, ma anche nei mondi invisibili che si affacciano
sull'inquadratura e sull'identità famigliare che costituisce il centro di gravità narrativo
del film. L'area invisibile di questo film è il presupposto non esplicitato di ogni
comportamento. C'è un contesto evidente nella sua materia visiva e visibile, c'è una
tragedia che si consuma nel silenzio e dal silenzio. Come se il film muovendosi sul
piano delle inquadrature lasciasse intendere un altro piano (parallelo, trasversale) in
cui la storia è già scritta. Non è solo la mente dell'autore che ha il suo storyboard, ma
è l'orizzonte predestinante, il meccanismo ineluttabile, che spinge l'autore a
raccontare una storia che una volta iniziata, procede da sé e l'autore, Gianclaudio
Cappai, non può fare altro che lasciare che si racconti. Anche in "Cuore di vetro" di
Werner Herzog, gli attori, ipnotizzati, mostravano uno script depositato nella loro
coscienza messa a nudo. In questo meccanismo narrativo entrano in gioco pulsioni,
emozioni – il deposito dell'inconscio – che l'autore mette in gioco perché il cinema è
sempre un mettersi in gioco. Anche gli attori sembrano cogliere questo contesto
emotivo e si danno al film come corpi ed emozioni, si mettono in gioco, lasciandosi
andare ad una storia che sembrano vivere prima che recitare. Non poteva venirne
fuori che un film perturbante, in cui l'immagine proiettata copre il silenzio del non
detto, del predetto, mentre il visibile racconta i corpi, l'emozione materializzata nei
corpi, la materia degli sguardi, la fisica dei sensi. Il sonoro immerge nel film come se
fosse il tempo e lo spazio stesso del film e tutto ciò che si muove dentro l'inquadratura
ha la forma, la dirompenza, la ruvida sensualità dei suoni: voci, rumori e silenzio
vibrano all'unisono con il visivo. Questa sinfonia mette a nudo i sentimenti dei
personaggi, li spoglia e li sottrae all'ipocrisia dell'apparenza. Emergono dalla vetrina
del mondo superficiale ed esteriore e si fanno smorfia del silenzio. In questo
movimento pulsante dal film alla pancia del pubblico, lo spettatore respira al ritmo del
respiro del film, immerso nell'universo sonoro, completamente – psicologicamente e
sensorialmente – coinvolto. Uomini e donne, così messi a nudo, vivono e recitano
senza pelle. Sembra di poter dire, ricordando De André, che per quanto noi ci
sentiamo assolti – perché gli spettatori sono alieni al mondo del film: si entra in sala
per tuffarsi nel buio della rinascita e della imminenza della luce, ma si combatte corpo
a corpo con la propria identità per tenerla fuori, ancorata alla luce del mondo reale –
siamo sempre, comunque, inconsapevolmente, volenti o nolenti, coinvolti, invischiati
nel vortice di turbamenti che il cinema scatena. Qui veramente viviamo la temperatura
viva di una identità individuale che non può definirsi fuori dal corpo collettivo e di una
identità collettiva che non può definirsi a prescindere dai progetti identitari dei singoli.
È un'identità quindi da sentire come percorso, come orizzonte culturale, che tiene in
sé non solo ciò che sta al di qua dell'orizzonte – il visibile, lo storico, i bisogni, il
passato, su connottu, il sedimentato, l'emigrato – ma anche ciò che fa essere
orizzonte un orizzonte, quindi ciò che sta al di là e che non riusciamo a catturare
definitivamente – l'invisibile, il futuro, l'ignoto, il conoscibile, il possibile, il contesto, la
cultura, l'immigrato. So che c'è un uomo… questo è il progetto. C'è di che rieducare i
fondamentalisti dell'identità.
di Antonello Zanda
Considerazioni sul film di Gianclaudio Cappai "So che c'e' un uomo".
Se il cinema fosse un mostro sarebbe un Ciclope. Quel Ciclope... e Nessuno il nome
del suo accecatore. Se ci fosse un uomo non ci sarebbe bisogno di saperlo... e infatti
un film che ha come titolo "so che c'è un uomo" assume un modo equivoco, ingenuo o
troppo astuto, al pari di Ulisse che al Ciclope si presenta come Nessuno, di dire che
quell'uomo in verità non c'è, o se c'è è semplicemente un altro. Con uomo intendo
Umanità, e anche nel simbolo abramitico del Padre che per ordine di Dio preparò il
sacrificio del figlio... Il film, in questo caso rovesciato, termina con un incendio, un
tremendo divampare di luce nel chiudersi all'ultima sequenza di questo simbolo, fino
all'accecamento totale della macchina- occhio. Se il cinema fosse quell'unico occhio, o
terzo- invisibile- occhio, sarebbe l'occhio che manca in quanto vede, di quel nano visto
all'incipit, come simbolo a specchio, di se. No, non c'è una storia da riprendere, a
meno di non volerla raccogliere da quell'ossesso frammentarsi di gesti, in quella
continua interazione senza azione simile a un amplesso con un fantasma, una storia, o
volerla desumere dalle poche battute di dialogo, più didascalie che interlocuzioni
(come desumere una strada dalla sua segnaletica!) mancandole personaggi, e nessi
tra le ombre di quelli che sarebbero potuti esserlo se solo il cinema avesse simulato di
guardare con due occhi umani, come nella normale fiction, piuttosto che scoprirne uno
solo e mostruosamente avido. Il mostro è fatto di cervello, muscoli, nervi, organi: il
regista, la troupe di attori, i tecnici, scenografi, costumisti, fino ai pompieri... ma
quello che si vede infine è quello che forse non esiste, poiché non c'è, o anzi, poiché
letteralmente c'è Nessuno davanti all'obiettivo, nel monocolo del Ciclope destinato al
buio finale, nel finale, da sempre inaspettato, seppure preparato al dettaglio. Il primo
terribile sopraluogo nel non- luogo del delitto. Il primo piano del Padre nella notte,
contro l'incendio di un'auto, nel nulla di un deserto. Il ragazzo che quasi tornato caro e
innocente si addormenta nell'abitacolo, come in un loculo prima della cremazione, per
l'ultima volta. E il pianto strozzato, più un grido fatto di lacrime, dei sopravvissuti,
unicamente colpevoli di aver dovuto scegliere di sopravvivere, ma attraverso
l'uccisione del proprio sangue. In questo consiste la tragedia: l'atto che li dovrebbe
liberare infondo non li dannerà definitivamente tutti al male? Il sogno si compone per
pezzo, vorticosamente. E proprio in questo vandalico accumularsi di eventi- attimi
fuori della storia (sorta di pre-istoria o post storia) in un'immagine senza centro,
asimmetrica e sterminata nella sua circolarità, il divampare dell'epilogo coglie
impreparati, seppure in qualche modo, nel modo specifico della "mala-fede", da
sempre consci di tutto, e del nulla cui questo tutto corrisponde, e che atterrisce al pari
di un crimine al di là del contenuto e dell'oggetto del crimine stesso, pur se
premeditato e compiuto. Il cinema è prima di tutto un fatto di Stile, di Forma! Già... ci
potrebbe essere una storia: un adolescente matto, una famiglia trascinata nel gorgo
patologico della sua follia... l'enigma irrisolvibile dell'origine di un sintomo che ritorce
l'effetto sulla propria causa, angelo contro Dio, figlio contro padre, rumori e versi
contro parole, anteponendo il perturbante alla grazia della norma... un mare (solo il
viaggio salvò Ulisse!) che si pietrifica, si desertizza, ma dove? In un non- luogo, o non
– scena, un posto dis-graziato, come potrebbe essere l'interno cavo di una cava con
un cielo duro, assurdamente estivo, immensa parete curva- invisibile. Una terra a
sterpaglia ai piedi, brulicante di mosche, con snervanti cicale ovunque, scorpioni... e
improvvisati ring nei polveroni, per feroci duelli di galli dagli occhi di demoni,
accompagnati da ignoti- altri dannati, ombre sbucate da chissà quale lontano o
prossimo punto del deserto che tutto agguaglia... terra in cui catapecchie s'alzano
sotto un sole micidiale, nella e dalla polvere, presso pompe di benzina dismesse come
da un tempo immemore, da altra storia, reperti archeologici di un mondo ormai
scomparso per sempre, e alla deriva oltre la sua stessa fine. Infatti non solo mancano
storia, personaggi, scene, ma soprattutto manca il tempo, come se invece di una
storia venisse ripreso e girato un mito. Penso al mito dell'orda primitiva, dove al posto
del Padre Terribile e Potente regna il Figlio Terribile e Impotente. Tutte le donne di
casa, compresa un'ospite destinata a rappresentare il solo spiraglio, l'alternativa, o
via, infine inutilizzata, di scampare alla tragedia (come un debole raggio nel buio
polveroso di una stanza!), restano soggette, intrappolate, alla follia del giovane enfant
terrible: l'epilettico, l'indemoniato, o semplice rovescio (in assurda caduta di stile,
Beckett etc. etc.) della polimorfa sensualità del bambino-angelo
... irretita incestuosamente la cugina, e con ferocia matricida la madre, atrocemente
malmenata, ma mai come in quegli istanti atrocemente sensuale. Tuttavia è forse il
padre, col suo portamento da sacrilego Abramo, laconicamente rejetto, in un deserto
post- storico, franato archetipo, il più compromesso dal desiderio di morte del figlio,
dal figlio stesso tentato di sacrificarlo... e non da Dio, come nel caso biblico, ma da
quel Nulla Venditore smanioso di morte (o di vita?) che volendo negarsi alla radice, la
nascita, commetterebbe un matricidio inverso a quello di Oreste: che mina alla base la
supposta (in "malafede"?) solidità della lealtà familiare. La madre non è che il pretesto
e lo sfogo a questa voglia compulsiva di morte... e soggetta alla sua Divina
Impotenza, nella sua esibita carnalità, nei suoi lividi, nella sua opacità di sguardi,
mostra una figura potentemente scavata dentro, ma appunto perciò internamente
buia e vuota, una madre coraggio degradata dal terrore, della viltà della disperazione,
e ormai rinunciata a ogni materna tenerezza per il figlio. Nessuna consolazione, solo il
panico di scampare al peggio.
C'è poi in casa un bambino, specie di figlio acquisito per pochi giorni, il fratellino
dell'ospite (gli unici spiragli vengono da fuori, se davvero esiste un "fuori- immagine",
e vi torneranno!) apparentemente oltre i contorni e le linee di questa storia mancata
poiché mancante, e perciò destinato a un'irrealtà superiore, struggente come un
barlume di ricordo, e angelica (prima della caduta); sarà lui ingenuamente, pur
mirando all'oscuro fulcro di tutto, come solo i bambini sanno fare, a porre il dilemma
del male, e dell'orrore, mentre si inquadrano viscide e orribili anguille. Ingenuità che è
però anche e soprattutto astuzia d'autore… e già, chi è l'autore, il regista? E noi che
vediamo attraverso il suo unico occhio? I pompieri dovranno, terminata l'ultima
ripresa, spegnere l'incendio. E forse il mostro, malgrado le apparenze, continuerà ad
essere noi, mentre ci alziamo dalle poltrone per recarci a casa. La domanda è: come
farà a sopravvivere la tartaruga alla perdita del guscio? Ogni problema etico infondo
non pone che il problema della Casa come luogo ideale di protezione dal male etc. etc.
Se l'io è altro, chi potrà mai davvero difendersi da se stesso? La tartaruga sul guscio
mostra un pezzo di scotch, simbolo sinistro ridotto a dettaglio della fragilità di tutto, la
schiena del bambino si ritrae con spavento al contatto gelido con l'animale totemico...
eppure ancora, se davvero il tempo non conta, come nei simboli e nei sogni dovendosi
concentrare e dunque leggere nella simultaneità dei segni, più che nel loro
svolgimento diacronico, più nei gesti che nelle azioni, nei dettagli che negli oggetti
reali, nei rumori che nelle parole, l'adolescente che, come nelle favole, una volta è
stato anche lui quel bambino, lo sarà ancora nel presente nella tragedia? E il bambino
lui? Chi mai risponderà a queste domande? Chi ha mai risposto alla domanda fatta
sulla tartaruga dal bambino? Nessuno... eppure l'una è le altre. E il film continuerà per
sempre, come un mito che si chiude in se stesso, inesorabile e innocente a girare,
macinando nel suo unico occhio- bocca di mostro ingannato, la realtà che infine lo
accecherà, frammento dopo frammento, pezzo per pezzo, dettaglio su dettaglio.
Dicevo, non ci sono vere scene, veri dialoghi… ci sono contatti, urti, botte, e anche
carezze di donne che rubano teneri, pur soffocanti idilli, di disperato amore accantodentro
al meccanico ostinato delle cicale, della ferocia, e del duello di galli con cui i
componenti del branco (non più famiglia) lottano, si azzannano come bestie tra le
bestie... ombre viste di taglio, attraverso primi piani lignei, mutilati, esposti a una
"dura luce sofoclea" (E. Pound), e più arcaica ancora. Infine un buio totale finisce per
colmare la misura dell'occhio, nel riempirlo di fuoco che è sangue, e sangue che è
fuoco... l'olocausto di un mistero o il mistero di un olocausto... al mostro, al cinema, e
a noi, che nel suo occhio guardiamo, ci tocca infine di urlare.
di Alessandro Contadini
Riflessioni sul mediometraggio "So che c'è un uomo"
di Gianclaudio Cappai
La prima immagine del film è quella di un bellissimo bosco verde e fitto fitto,
un'immagine positiva che parla di una natura rassicurante e rilassante e rimanda a
tempi felici, collettivi e individuali, all'infanzia, alle fiabe…Ma è soltanto uno sfondo, in
lontananza, un ricordo, forse una nostalgia…Infatti il quadro cambia bruscamente e lo
spettatore si trova immediatamente immerso in una situazione confusa e sgradevole,
nel contesto in cui stanno per svolgersi gli eventi, in apparenza pochissimi, ma in
realtà tantissimi : c'è un nano, uno dei sette della fiaba di Biancaneve, di ceramica,
sporco, con un grande buco al posto dell'occhio destro, che fa da tramite nel
passaggio dall'uno all'altro ambiente.
L'ambiente al quale ci introduce il "nano" è chiaramente una campagna, ma senza
natura se non il frinire delle cicale, ossessivo, martellante e raggelante, pur nella
bruciante calura, che crea però una colonna sonora efficace e alienante. La natura è
sostituita da un'accozzaglia di oggetti inservibili, abbandonati: vecchie gomme di
automobili, vecchie pompe di benzina, giocattoli o mobili, attrezzi di ogni genere. Ma il
contesto è attuale perciò non mancano gli strumenti tecnologici contemporanei che
sono parte integrante della vita quotidiana dei personaggi e contribuiscono, in un
certo senso, a determinarne il destino: il camper, l'automobile, l'aspirapolvere, il
telefono, ecc. La località è lontana da paesi e città e, nonostante i mezzi di
comunicazione, appare isolata dal resto del mondo e, direi, da un contesto civile.
Il senso di solitudine che emana da quell'ambiente prepara alle estreme solitudini
narrate nel film: ogni personaggio ha la propria; si salvano soltanto i bambini che
riescono a comunicare tra loro e a giocare insieme.
La casa, quella vera, ossia il casolare di cui si intravede soltanto la facciata, è costruita
in pietra, perciò appare solida e rassicurante: peccato che la vita dei personaggi si
svolga soprattutto altrove, nei dintorni, nel camper, in macchina, in spazi aridi e
polverosi, all'aperto, ma non aperti, anzi, piuttosto limitati da oggetti ingombranti, da
oggetti rotti che dovrebbero essere aggiustati, ma nessuno lo fa... Il casolare ha una
bella sala da pranzo e per una volta ci è dato di vederla nella sua naturale funzione
istituzionale di riunire la famiglia intorno a una grande tavola ben apparecchiata.
Cinque persone sono componenti della famiglia che vive in quella casa e in
quell'ambiente, mentre gli altri tre sono i cugini ospiti. Inizialmente il pranzo si svolge
in un clima di serenità, ma basta un pretesto banale per frantumare quella serenità e
scatenare una ridda di battute incrociate cariche di sottile cattiveria che dice molte
cose sui rapporti e sulle tensioni presenti nella famiglia.
La vita dei membri della famiglia, cui si aggiungono i cugini presenti
temporaneamente, ruota tutta intorno al malessere del giovane Cosimo, un malessere
che si manifesta in tante forme: sofferenza fisica; depressione; piccoli gesti sgarbati e
aggressivi nei confronti ora dell'uno ora dell'altro personaggio, senza risparmiare
neppure i bambini; aggressività e violenza fisica nei confronti dei genitori e soprattutto
della madre.
La malattia del giovane, però, non è l'oggetto dei discorsi della famiglia; c'è una certa
omertà in tutti perché alcune cose si possono dire, altre no, ci sono silenzi,
atteggiamenti che presuppongono eventi precedenti e fanno presagire sviluppi
successivi: forse, si potrebbe pensare, proprio quei silenzi, quell'atmosfera depressa,
apparentemente anaffettiva ha offerto alla malattia il terreno fertile per venire alla
luce. E una volta uscita allo scoperto, la malattia ha tratto alimento e si è rafforzata
grazie allo smarrimento in cui ciascuno è precipitato, alle debolezze, agli egoismi, alla
mancanza di quella linfa vitale fatta di amore e di solidarietà, di consapevolezza e di
intelligenza. La comunicazione tra le persone non è quasi mai fatta di parole:
dominano i gesti, gli sguardi, fugaci contatti fisici che sottendono una inconsapevole
sensualità che scaturisce da un profondo bisogno di amore inappagato. Chi rompe il
silenzio è Tania ed è quella che ha il coraggio della verità: nel suo rapporto col cugino
c'è sicuramente un affetto forte ma anche una componente di innamoramento e di
attrazione che le consentono di percepirne la sofferenza e la rendono protettiva e
preoccupata. Soprattutto crede di cogliere in certi sguardi di complicità, in gesti
sfuggiti al controllo, in parole sussurrate la voglia della famiglia di liberarsi del ragazzo
malato. La sorella di Cosimo, Virginia, alla quale Tania confida le sue paure, i suoi
presentimenti, reagisce con durezza a simili insinuazioni. Come può venirle in mente
che proprio il padre voglia fare del male a suo figlio? In realtà, in cuor suo, fa proprie
le paure di Tania: si fa più attenta e capta sentimenti oscuri, desideri sotterranei,
inconfessabili; per la prima volta sente che "il male" non proviene dal fratello malato,
che anzi è in pericolo, ma da chi dovrebbe proteggere, amare, salvare.
Ora sono in due a sapere e, anche se la loro comunicazione è fatta più di gesti
(abbracci, sguardi, condivisione di spazi, nel vecchio camper, nel letto, nel bagno) che
di parole, si crea tra loro una certa complicità " sororale", nell'intento comune di
proteggere il fratello-cugino, amato da entrambe, anche se con sfumature diverse.
Anche il padre ama il figlio, riesce a coinvolgerlo nelle varie attività della famiglia e
insieme, padre e figlio, fanno tante cose. Ma l'attività che li coinvolge di più e crea tra
loro un legame è l'addestramento dei galli e la partecipazione ai combattimenti. La
comunicazione tra loro, però, manca di spontaneità e di autenticità e si riduce a poche
questioni di vita quotidiana dove i toni sono bruschi e sgarbati, ma mai violenti. Viene
da pensare che la lotta tra i galli sia lo specchio del loro rapporto e che le spinte
aggressive reciproche siano trasferite su quegli animali che essi addestrano per la
lotta decisiva in cui uno dei due dovrà soccombere: il più debole? Il meno furbo?
Quello che smette di lottare?
Sembra evidente, quindi, il ruolo simbolico del combattimento dei galli nel rapporto tra
padre e figlio, così come il significato simbolico che esso assume nel film (rappresenta
quel rapporto... è un doppio di quel rapporto)
Il rapporto tra il figlio e la madre è più complesso e rimanda, come è ovvio, a chissà
quanti problemi irrisolti, forse mai affrontati e mai capiti. Da qui la sofferenza che,
quando è troppa e insopportabile, prende la strada della violenza: è la madre, per
destino, oggetto di amore e odio allo stesso tempo, ed è ambivalente essa stessa,
come ci raccontano le fiabe, i miti e la psicanalisi. Perciò l'aggressività del figlio nei
confronti della madre, è un evento assolutamente ordinario, ovvio, soprattutto quando
una madre appare debole perché forse ha esaurito le proprie risorse, le proprie
energie e si rifugia nella depressione per sopravvivere a sua volta. Sa che il problema
è più grande di lei e non lo vuole più affrontare; non è una madre senza amore, ma è
una madre che ha il cuore inaridito dalla troppa sofferenza e non è più capace di un
gesto d'amore per il figlio sofferente, ne ha solo paura.
Entrambi i genitori appaiono come due persone esauste, che hanno sopportato molto
nella vita e non possono sopportare più niente, si sono svuotati: non hanno più amore
da dare, sono impotenti di fronte a quel male del figlio per il quale non c'è rimedio.
Quel luogo in cui si svolgono le vicende è un luogo isolato dal resto del mondo e
implicitamente rappresenta l'isolamento della famiglia abbandonata a se stessa ad
affrontare da sola un problema enorme, un problema che in certe situazioni prende
forma di tragedia. Ma non vuole essere una denuncia sociale, il film, anche se
inconsapevolmente lo è; esso, piuttosto, fotografa una realtà: la realtà di una famiglia
alle prese con un problema difficilissimo; le azioni dei vari personaggi di fronte al
problema, le reazioni e le interazioni reciproche, le verità e le ambiguità, il coraggio e
la paura, il perturbante e il tragico. Ma soprattutto osserva un processo, l'evoluzione di
certi eventi, il modo di essere dei personaggi e il loro modo di agire in una situazione
o addirittura il modo in cui vengono agiti dagli eventi.
Dal modo di essere dei genitori, dalle poche frasi che si scambiano, dall'urgenza che
hanno di salvare il salvabile di quella famiglia e dei loro beni, dal bisogno di ritrovare
un equilibrio e uscire dalla paura con la quale convivono da sempre, scaturisce
quell'elemento perturbante, che fa paura a sua volta ed è imprevedibile tanto quanto
l'altro, anzi ancora più inquietante, perché non proviene da un "folle", ma da un padre
e una madre che si presumono affettivamente vicini, protettivi e rassicuranti, archetipi
del familiare, del conosciuto, del prossimo, donatori di vita e non di morte.
La macchina da presa coglie spesso la madre abbandonata su un lettuccio del camper,
triste, spossata,vuota; il padre viene colto mentre "pensa", sempre un po' staccato
dagli altri, mangia da solo ed osserva ed elabora pensieri, cerca soluzioni. Vede che
per la moglie la situazione sta diventando insopportabile: non si aiutano a vicenda a
capire, ad accettare , vogliono fuggire dal problema, perché quel problema blocca la
famiglia, pone troppi problemi a tutta la famiglia e vedono lo spettro di un futuro
sempre più incontrollabile, che fa sempre più paura.
L'epilogo tragico è nell'aria: la cugina Tania torna a casa perché la mamma è venuta a
prenderla; partono anche i fratellini di Tania e con essi anche il cugino piccolo, perché
è estate e deve fare una vacanza; la madre e la sorella si rifugiano in una stanza da
letto: sembra che vogliano godersi un po' di tranquillità insieme, dato che sono sole,
mentre gli uomini e il bambino che solitamente si affidano alle loro cure non sono in
casa; il padre e il fratello partono al tramonto per l'ennesimo combattimento di galli.
Ognuno di questi eventi è innocente, non ha in sé niente di catastrofico, non nasconde
secondi fini... O forse sì? Non sarà per caso che, in tutte queste azioni, così innocue,
così ingenue, così normali, semplici emergenze quotidiane, si nascondano intenzioni
oscure, finzioni, complicità inconfessabili?
Infatti:
- la cugina parte, torna a casa sua, pur avendo capito che qualcosa di tragico accadrà,
dopo la sua partenza. Abbandona al proprio destino quella famiglia;
- con la partenza dei bambini quella casa si svuota di qualsiasi elemento di speranza,
di tenerezza, di futuro; il figlio piccolo avrebbe potuto rappresentare un ostacolo per
qualsiasi iniziativa
della famiglia; è stata la madre a mandarlo in vacanza dalla zia..
la madre e la sorella si rifugiano nella roulotte; forse sperano di trarre consolazione da
quella vicinanza affettuosa e complice; forse sperano di vincere la solitudine e di
attenuare il dolore. Sanno ciò che sta per accadere? Lo intuiscono vagamente? Lo
ignorano? Fanno finta di non sapere? Le loro espressioni sono cupe ed enigmatiche e
le loro parole assenti;
Se si guardano le cose da questo punto di vista non si può non vedere, nella sequenza
dei fatti accaduti, ancora una volta quell'elemento perturbante che racconta qualcosa
dei personaggi del film in cui ciascuno di noi può specchiarsi, anzi che racconta di noi
e del nostro lato oscuro.
E' proprio a questo punto che compare lo scorpione, naturale, sì, in quell'ambiente,
ma che incarna il lato oscuro di ciascuno dei personaggi e arricchisce di senso il
racconto.
Quando il padre annuncia al figlio che il combattimento dei galli avverrà quella notte,
l'espressione "andiamo" richiama altre espressioni cariche di significato, evoca altri
eventi molto lontani, anzi mitici: l' "andiamo ai campi" di Caino ad Abele e, ancora di
più, l' "andiamo al monte sacro" di Abramo al figlio Isacco, al figlio che Dio gli aveva
chiesto in olocausto (o l'Ifigenia di Agamennone sacrificata dal padre per la vittoria dei
Greci a Troia). E anche ora, come allora, di sacrificio si tratta, del sacrificio del figlio: il
figlio innocente, senza colpe perché sofferente, che si fida del padre e si addormenta
nella falsa attesa dei partecipanti alla gara. Lui non ha paura perché non incontra lo
sguardo sfuggente di suo padre, non legge nella profondità di quello sguardo e non ne
coglie il lato oscuro, non ne coglie l'elemento perturbante che ha dato i brividi a Tania;
resta così senza difese e si offre, pur senza averne consapevolezza, pur senza dire il
suo "sì", come agnello sacrificale.
Il luogo del sacrificio non è casuale: è la cava di marmo abbandonata, già adocchiata
dal padre in un precedente viaggio, durante il quale veniva riportato a casa un gallo
morto e cioè il gallo che aveva perso la gara ed era stato ucciso dal gallo avversario;
ma per una singolare anticipazione di eventi futuri, in quello stesso viaggio era stato
caricato in macchina anche Cosimo, caricato dal padre e dalla sorella e sostenuto da
essi alle spalle e ai piedi, a guisa di un Gesù morto e deposto, poiché dopo il
combattimento si era sentito male. Viene abbastanza spontanea l'identificazione tra il
gallo morto e Cosimo svenuto, così come la sosta nella cava preannuncia l'epilogo
tragico. Infatti, proprio lì, in quella cava abbandonata, sotto un cielo notturno privo di
stelle, si compie l'ultimo atto di un destino che appariva ineluttabile fin dalle prime
sequenze. E' una condanna? E' una salvezza?
L'incendio della macchina con dentro il corpo del figlio richiama alla mente una "pira",
un vascello funebre che brucia il defunto insieme alla catasta di legna e ha una
funzione purificatrice. Qui sembra più un atto di pietas del padre verso il figlio che un
omicidio. Sicuramente non c'è violenza in quest'atto, piuttosto amore, quell'amore che
il padre, per tutta la vita, non aveva saputo esprimere al figlio e che forse l'avrebbe
salvato.
Mentre scorrono le immagini dell'incendio nella cava, ed è ancora notte, nella casa è
già mattino, come se i due luoghi, distanti pochi chilometri, appartenessero a due fusi
orari lontani: Virginia, al risveglio, vede che in casa non c'è nessuno e prova un senso
di smarrimento, ma poi esce dalla casa e vede sua madre che indossa un abito
normale, non più la camicia da notte e la vestaglia che la facevano apparire sciatta e
depressa, ma una gonna e una camicia, è serena e rilassata e si occupa di cose
concrete come preparare i pomodori secchi. Virginia intuisce la causa di quel
cambiamento. Tace. Trascina una sedia di ferro, pesante come un corpo morto, verso
un punto del campetto coperto di erba secca, e il rumore che produce è veramente
fastidioso, stridente, graffiante, e sembra che ferisca la terra e il silenzio ma è solo
l'eco dell'urlo liberatorio che Virginia trattiene nel petto. Sistema la sedia in un punto
esposto al sole: si siede e chiude gli occhi e si fa avvolgere dalla luce e dal calore,
mentre da un occhio sfugge una lacrima.
di Maria Lucia Podda
RECENSIONE FILM SO CHE C'E' UN UOMO
Un percorso chiaro ed enigmatico quanto un sentiero nel bosco. Un bosco tetro,
foltissimo, ogni tanto schiarito da lame di luce. Un sentiero ripulito, ancor più
inquietante per questo. Il bianco accecante e il nero che sta nel fondo dell'anima. Un
film che vive- il verbo giusto, vive- sempre tra due bordi, tra due rive opposte, una
paludosa l'altra a strapiombo, e in mezzo un fiume roboante e vorticoso ma dal
percorso ben delineato. Un fiume sempre pericoloso anche se guidato dal suo stesso
letto. Un fiume terrorizza perché sembra sfidabile. Come gli zombie. Il fiume ha le
rapide, straripa a volte, e a volte va attraversato o navigato a forza, per sopravvivere.
Il fiume di Aguirre, il fiume di Addie Bundren e i suoi 5 figli, il fiume di Suttree anche.
Sicuramente non i fiumi di Ungaretti o Tsai Ming Liang.
E' difficile parlare di questo film, se non sfruttando immagini che suscitino una forma
affine (una metafora?), che diano una sostanza non cinematografica alle "interiora"-
perciò invisibili ma percepibili, come in un corpo- del flusso cinematografico, che non
riesco a paragonare a null'altro. Per me, almeno, è molto difficile. Per me, che nella
vita cerco di fare "cose audiovisive" è difficile tradurre una lingua, il cinema, in un'altra
lingua, il verbo. Di solito, quando trovo un film che "funziona", cioè che sfrutta il
linguaggio cinematografico appieno e trova vie inedite, le parole mancano, è difficile
dire qualcosa, poiché quello che c'è lì di fronte ha già tutto, non serve nulla più. Dei
film bisogna parlare, certo, ma per me, e forse per chi fa questo mestiere, l'afasia è
sinonimo di riuscita. So che c'è un uomo mi dà questo, è questo in modo eccelso. Mi
pare che ogni attributo verbale possa nuocergli incanalandolo in un'interpretazione,
una lettura, che va in qualche modo a ostacolare il flusso.
Proverò comunque a scrivere qualcosa, più come testimone che come analista.
UNA SPONDA DEL FIUME
La prima visione del film al cinema è stata fortissima. Le immagini trasudavano,
sembrava sempre che stessero per esplodere. La sensazione di assistere a qualcosa
che avesse una vita, che faticasse lì sullo schermo. Per me questo è importante, un
film deve essere una sorta di esperienza. So che c'è un uomo era esattamente quello.
Scene pregne di "cose", dove la narrazione avveniva anche nei momenti di astensione
dal fare; una tensione sempre, senza un attimo di respiro. Immagini gravide di colore,
pelle, occhi, animali, polvere e, ovviamente, luci e ombre. Una non-storia che tiene
appiccicati allo schermo con il cuore in gola come una sindrome psichica nella testa di
un uomo nella realtà. Forse esagero, ma questo è quanto, alla prima visione. Mi
colpisce molto il materiale ricchissimo- ricco di elementi che sono simboli, sono
allegorie, ma sono anche niente, frammenti di reale che suggeriscono, guidati
dall'autore, qualcosa di ineffabile e oscuro, che lavora all'interno e apre inediti sguardi
sulla vita. Insomma, sempre secondo il mio elementare modo di vedere, "funziona".
Apre brecce, prende la realtà e la fa strillare, ci mostra i tessuti porosi al microscopio.
Non un saggio sul vivere, ma un maledetto taglio. Le impressioni a caldo poi lasciano
il posto alla visione "tecnica", la fotografia eccezionale e curatissima, uno stile maturo
e coerente che dilata lo spazio tramite le inquadrature, gli attori sporcati a dovere e,
importantissimo, il suono: un sound design perfetto. Ma sorvolo su questo, anche chi
non ama questo film non può non accorgersi dalla prima inquadratura quanta cura è
stata messa.
Mi ricordo di avere avuto anche un'impressione di compressione: un film di 30 minuti,
non un cortometraggio. Un romanzo breve, non un racconto lungo.
Insomma, sono molto soddisfatto, ma qualcosa non mi torna, mi sfugge.
L'ALTRA SPONDA DEL FIUME
La seconda visione solitamente svela un poco i trucchi del film. Se la pellicola è buona
non la brucia, però, con occhio da addetto ai lavori, si possono vedere se ci sono
"furbate" o, più onestamente, scrutare meglio l'autore da vicino. La seconda visione di
So che c'è un uomo invece mi ha MOSTRATO UN ALTRO FILM. Da questo, ma solo in
secondo grado, attraverso un pensiero a posteriori, ho visto l'autore vicinissimo, al
microscopio (quindi sempre una visione artistica, deformata).
La seconda visione mi ha mostrato le prime impressioni, certo, ma mi ha svelato una
cosa che non avevo colto o, meglio, avevo messo in secondo piano: la scrupolosissima
costruzione di tutto il film, frame per frame, da parte dell'autore. Al caso non è stato
lasciato nulla. Tutto il film è pieno di scrittura, ogni parola è misurata, ogni
inquadratura è studiata, ogni rimando pensato. Nulla, davvero nulla si muove fuori
posto. Tutto è stato perfettamente organizzato per rappresentare il caos. Questo, in
un certo senso, mi ha sconvolto ancora di più della prima impressione. La prima volta
credevo il film si fosse gettato nella vita e avesse raspato sino a trovare le aperture
che cercava (che poi è quello che cerco di fare io quando filmo). Invece tutto era
scritto, tutto era previsto. Una storia c'è, eccome, un duro incedere verso l'inevitabile
fine, diretto, che non si ferma, che porta avanti il film ma che forse non è narrazione,
che procede per sensazioni, moti dell'animo, frammenti di realtà. Qui mi accorgo che
quello che non mi tornava era questo, una sorta di robustezza del film tutto, che lo fa
funzionare, nel ricordo, un po' come un classico, come un western, solido.
IL LETTO DEL FIUME
A conti fatti, ho un poco sbagliato la visione del film in entrambi i casi, ma non perché
il film mi abbia tradito. Molte cose che amo e che cerco di fare ho trovato nella prima
visione, e ho cercato di fare il film "mio", un rafforzamento delle mie idee e
frustrazioni. La seconda visione mi ha mostrato ciò che è più lontano da me e mi ha
confuso e stupito: ho reagito cercando di sezionarne la scrittura. Ma in entrambe ho
sbagliato. Questo film-fiume non ama essere legato a nulla, sfugge, come una sorta di
amante che vogliamo conoscere fino in fondo, ma è impossibile, solo dobbiamo farci
guidare lo sguardo verso luoghi ancora poco conosciuti, che siano fuori o dentro.
Questa la ricchezza, come delle grandi cose, l'essere a se stante eppure comune,
ritrarre il disordine vitale guidandoci per mano. Un film irripetibile, che ha a che fare
con la vita eppure riesce ad aprire nuove prospettive su di essa.
Cappai è riuscito a mettere sulla carta a priori il caos, è riuscito a prevedere gli attriti
e le slogature tra reale e macchina da presa. Non so come ha fatto: il mistero della
creazione. Ma questa sorta di chiaroveggenza fa di So che c'è un uomo" un percorso
attraverso sangue e filamenti dove alla fine tutto è cristallino e chiaro. Una
meravigliosa contraddizione visiva, anche.
di Filippo Ticozzi